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BRASILIANI E CITTADINANZA ITALIANA

No alla “Grande naturalizzazione” e all’attesa di due anni per iniziare il giudizio





Non occorre attendere due anni per iniziare il giudizio di riconoscimento della cittadinanza italiana da parte di brasiliani discendenti di avi italiani emigrati in Brasile, né ha alcun fondamento giuridico la tesi della cosiddetta “Grande naturalizzazione” brasiliana, sostenuta dal Ministero dell’Interno per negare, in alcuni casi, la cittadinanza italiana ai discendenti che la richiedono per via giudiziale.

È questo il succo di una importante ordinanza del Tribunale di Roma in tema di acquisto di cittadinanza iure sanguinis dei discendenti brasiliani di cittadini italiani trasferitisi in Brasile alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX secolo.

Il giudice Eugenio Gatta, della sezione diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma, con ordinanza resa in data 9 settembre 2020 nel ricorso R.G. n. 38773,/2019 patrocinato dal sottoscritto (v. file allegato), ha infatti accolto la domanda dei ricorrenti, dichiarando che gli stessi sono cittadini italiani e ordinando al Ministero dell'Interno e, per esso, all'ufficiale dello stato civile competente, di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile, della cittadinanza dei medesimi ricorrenti, provvedendo ad eventuali comunicazioni alle autorità consolari competenti.

Come noto, nel sistema in italiano la cittadinanza si acquista e si trasferisce iure sanguinis, vale a dire attraverso la discendenza da un comune ascendente avente la cittadinanza italiana.

L'Avvocatura di Stato, che difende ex lege il Ministero dell'Interno, però, in alcuni casi, come quello “de quo”, si oppone alle richieste dei ricorrenti; in particolare, in questo caso, come in altri analoghi, sostenendo l'infondatezza della domanda a motivo dell'intervenuto decreto di “Grande naturalizzazione” brasiliana del 1889, con il quale, in quell'anno, lo Stato brasiliano aveva naturalizzato i cittadini stranieri residenti in quell'anno in Brasile, i quali, sempre secondo l'Avvocatura di Stato, per effetto della naturalizzazione brasiliana, anche senza e o contro la loro volontà, avrebbero perduto la cittadinanza italiana, che non avrebbero potuto, quindi, trasferire ai loro discendenti.

L'ordinanza del giudice Gatta, che si inserisce nel solco di un recente indirizzo della sezione diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma, è importante perché fa chiarezza in materia, stabilendo che non si può perdere la cittadinanza senza un rinunzia esplicita da parte dei cittadini di altro Stato.

Si legge nella citata ordinanza: “Nel merito, con la cd. grande naturalizzazione del 1889-1891 il governo provvisorio della Repubblica brasiliana, nel 1889, decretò che venissero considerati brasiliani tutti gli stranieri residenti in Brasile alla data del 15 novembre di quell'anno, salva dichiarazione in contrario da rendersi nella rispettiva municipalità entro sei mesi dalla data di entrata in vigore di quel decreto.

“Tale norma che, d’imperio, imponeva la cittadinanza brasiliana a tutti gli stranieri residenti in Brasile alla data di pubblicazione del decreto, salvo rinuncia da manifestarsi espressamente entro 6 mesi, deve essere necessariamente posta in stretta correlazione con l’art.11 del Codice civile del 1865 all’epoca vigente e ciò perché secondo le norme del diritto internazionale le leggi estere non possono in nessun caso derogare alle leggi proibitive del regno concernenti le persone, i beni e gli atti, ed a quelle riguardanti in qualsiasi modo l'ordine pubblico ed il buon costume; l’art.11 del Codice civile del 1865, al comma 2, prevede che la cittadinanza si perde da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero”.

In tema di cittadinanza, prosegue l’ordinanza “l'acquisto della cittadinanza straniera, non implica la perdita automatica della cittadinanza italiana, la quale richiede che detto acquisto sia avvenuto spontaneamente ovvero se verificatosi senza il concorso della volontà dell'interessato, che sia stato seguito da una dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza italiana”.

Infatti, circostanza fondamentale messa in luce dal giudice, “ogni persona ha un diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile allo stato di cittadino che può perdersi solo per rinuncia”.

Il difetto di dichiarazione contraria all'accettazione della cittadinanza brasiliana non soltanto era da ritenersi inefficace a provare la rinunzia alla nazionalità di origine, "ma violava altresì la libertà di scelta, in quanto vincolano alla forma negativa del silenzio l'espressione positiva di voler abbandonare l'antica cittadinanza ed acquistarne una nuova".

Ne consegue che “dal mancato esercizio della rinuncia alla cittadinanza brasiliana non ne può discendere l’automatica perdita della cittadinanza italiana”.

Il giudice romano si domanda se “la legge del Brasile, in tema di cittadinanza, avesse potuto derogare al codice civile italiano, le doglianze dei ricorrenti non hanno fondamento, e quindi vanno respinte" (Cass. Napoli, 5 ottobre 1907, cit.)”; rispondendo decisamente di no. “In linea di continuità con il Codice civile del 1865, l’art.8 della L.555/1912 – afferma il giudice - ha chiaramente posto in evidenza come l’acquisto o la perdita della cittadinanza sia conseguenza diretta ed imprescindibile di un atto consapevole e volontario dell'interessato”.

Altro aspetto interessante della vicenda, che riguarda non il merito ma il rito della questione, e che merita di essere adeguatamente messo in luce, è quello relativo alle eccezioni sollevate preliminarmente dal Ministero convenuto circa l’improcedibilità della domanda per mancata decorrenza del termine di 730 giorni di cui all’art.3 del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362.

“Si ritiene preliminarmente, in rito, - scrive l'estensore dell'ordinanza - che, con riferimento alla disposizione dell’art.3 del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362, il decorso del termine di 730 giorni non sia configurabile, in difetto di espressa previsione legislativa, come condizione di procedibilità, proponibilità o ammissibilità della domanda”.

“Invero, muovendo dalla nozione di improcedibilità, quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale, deve concludersi che detta sanzione dev'essere espressamente prevista, non potendo procedersi ad applicazione analogica in materia sanzionatoria, attese le gravi conseguenze del rilievo dell’improcedibilità”.

“Inoltre poiché le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità o di ammissibilità, come già evidenziato, costituiscono una deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio garantito dall'art. 24 Cost, esse non possono neppure essere interpretate in senso estensivo”.

In buona sostanza, non occorre attendere il termine di 2 anni dalla domanda avanzata in via amministrativa (si ricorda che al Consolato Generale d'Italia di San Paolo del Brasile, come pressoché in tutti gli altri Consolati Generali italiani nel grande Paese sudamericano, si stanno esaminando attualmente le domande presentate negli anni 2008, 2009 e 2010, con un'attesa di circa 12 anni!) per ricorre in giudizio e ciò considerato che la situazione di grave ritardo in cui versa l'amministrazione italiana rende praticamente impossibile l'esercizio e la soddisfazione di un fondamentale diritto quale quello della cittadinanza in termini normali.

Una decisione importante, destinata a fare giurisprudenza, insieme alle altre analoghe della sezione capitolina.


Avv. Stefano Nitoglia

Scarica l'ordinanza del tribunale

Testo Ordinanza Trib Roma 09.09.2020
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