Quando l'appello è inammissibile

Incombe sull'appellante, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., non solo adempiere al dovere impostogli di individuare le statuizione concretamente impugnate, ma anche quello di esporre le ragioni volte a confutare le argomentazioni che sorreggono la decisione impugnata, di guisa che alla cosiddetta parte volitiva dell'appello deve accompagnarsi una corrispondente parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.
Lo ha ribadito la Corte d’Appello di Roma nella sentenza 3584/2018 citando, tra le tante, la sentenza n. 22781 del 27 ottobre 2014 della Cassazione.
“È noto - argomenta la corte capitolina-che dopo la riforma del 1990 il giudizio di appello si è concretamente evoluto nella struttura della "revisio prioris instantiae"; con la conseguenza che, nella sua più recente configurazione, l'appello si correla direttamente alla sentenza impugnata e non al rapporto oggetto della cognizione in primo grado, essendo la sentenza stessa a costituire l'oggetto che viene a cadere sotto l'immediata percezione e valutazione del giudice dell'impugnazione, come vieppiù risulta anche dalla formulazione dell'art. 339 c.p.c.”.
In altre parole, nell'atto di appello devono risultare chiare le doglianze dell'appellante nei confronti della sentenza impugnata nonché le ragioni idonee a porre in discussione il fondamento della decisione impugnata, astrattamente suscettibili di sovvertire le statuizione del giudice di primo grado, fornendo una diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata in prime cure. Diversamente, l'appello deve ritenersi inammissibile.