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Adozione minori: problemi e prospettive della riforma


Lunedì 13 giugno alla Commissione Giustizia della Camera si è svolta una audizione di esperti sulle proposte di riforma in tema di adozioni. Per il Centro Studi Rosario Livatino hanno svolto relazioni l’avv. Margherita Prandi Borgoni e l’avv. Giancarlo Cerrelli. Riportiamo di seguito il testo dell’intervento dell’Avv. Cerrelli, rimasto agli atti della Commissione, e pubblicato sul sito del Centro Studi Rosario Livatino www.centrostudilivatino.it, riservandoci di pubblicare in seguito quello dell’Avv. Margherita Prandi Borgoni.

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Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione e affido.

Audizione Avv. Giancarlo Cerrelli

13 giugno 2016

1. Premessa

Signora presidente, onorevoli deputati, ringrazio dell’invito a questa audizione e per l’opportunità che mi è offerta di partecipare a quest’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione e affido.

Rappresento il Comitato Sì alla famiglia che ha come scopo la promozione e la difesa della famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e la donna e che assieme al Centro Studi Livatino approfondisce gli aspetti culturali e giuridici afferenti a questa istituzione basilare della società.

Passando al tema dell’audizione, d’esordio vorrei affermare che il giudizio sull’impianto e sullo stato di attuazione della legge 183/1984 è tendenzialmente positivo; la legge non ha bisogno di riforme radicali, ma eventualmente di alcuni aggiustamenti burocratici di cui farò stato nella mia breve esposizione.

2. Il diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia

Ritengo opportuno prendere le mosse dal principio cardine su cui si fonda la legge 184/1983 e cioè il diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia.

Tale diritto, com’è noto, è il capoverso dall’art. 1 della legge 183/1984 sull’adozione, diritto già riconosciuto dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989, sui diritti del fanciullo.

Il diritto del figlio di crescere in famiglia ha ottenuto ulteriore importanza e forza dal suo inserimento nel codice civile all’art. 315 bis.

Tale diritto è qualificabile alla stregua di un diritto fondamentale e costituisce, pertanto, una situazione giuridica soggettiva di rango primario, perché la famiglia è un bene essenziale per la vita affettiva dei figli e per la loro armoniosa formazione.

Tale diritto che, come detto, è un principio fondamentale, riflette la responsabilità scaturente dal rapporto procreativo, già definita dall’art. 30 Cost., che ha tra l’altro rappresentato il riferimento della recente riforma della filiazione. L’art. 1 l. 184/1984 ha avuto il merito – sposando tale principio – di ribaltare l’angolo visuale, rispetto all’art. 30 Cost., in quanto non ricava i diritti del figlio dai doveri dei genitori, bensì i doveri dei genitori dai diritti del figlio. Tale prospettiva è stata ugualmente accolta dall’art. 3, n. 1 a) della l. 112/2011, che ha istituito l’autorità garante dell’infanzia e che, tra le competenze di detta autorità, pone la promozione della piena applicazione del diritto della persona di minore età ad essere accolta ed educata prioritariamente nella propria famiglia.

Il diritto a crescere nell’ambito della propria famiglia si declina nel diritto del minore alla doppia figura genitoriale, che non significa diritto del minore ad avere due genitori qualsiasi, tuttavia, l’affermazione del diritto del minore alla propria famiglia non può che indicare il diritto ad avere una mamma ed un papà.

Il diritto del minore a crescere nella propria famiglia ha, dunque, come esito il diritto alla bi-genitorialità, cioè alla doppia figura genitoriale, che è strettamente connesso all’idea di famiglia; è, tuttavia, opportuno evidenziare che la bi-genitorialità e la famiglia sono due elementi da cui non si può prescindere. Il diritto del minore ad avere due genitori non si può configurare senza una sua valutazione qualitativa, ovverossia che il minore abbia due genitori che siano i suoi genitori e quindi di sesso diverso.

La genitorialità è, infatti, una dimensione di ruoli, e di ruoli diversi, quantunque complementari, tra padre e madre. Non è difficile costatare che si potrà anche crescere senza un padre e/o una madre, ma senza di essi — in quanto genitore e genitrice — non si può nascere.

Oggi tutto questo è messo in discussione con il pretesto di attuare un preteso diritto di uguaglianza e, così, superare eventuali discriminazioni; tuttavia, com’è noto, si è alla presenza di una discriminazione quando due fattispecie analoghe sono trattate in modo differente e non quando due situazioni di fatto diverse sono trattate giuridicamente in modo differente.

Ecco, ritengo che questo sia un aspetto che debba essere attenzionato dal legislatore, perché con il pretesto di accontentare gli adulti si sta creando una categoria di veri discriminati, cioè minori che non avranno il diritto di conoscere e di crescere con i propri genitori biologici, non perché siano stati da loro abbandonati, ma perché sono fatti nascere con tecniche artificiali, che negano loro il fondamentale diritto di conoscere e di crescere con chi li ha procreati.

L’istituto dell’adozione che è nato per perseguire il nobile fine di dare una famiglia a un bimbo che non ce l’ha, ultimamente sembra, invece, essere usato per il perseguimento di un chiaro fine ideologico, che tende a marginalizzare sempre più culturalmente il dato biologico della genitorialità, a favore di un non ben specificato aspetto e rilievo sociale di questa.

3. Lo scopo dell’adozione

Il diritto del minore alla “propria” famiglia — quando, però, di fatto diventa inattuabile, perché il minore è stato abbandonato — diviene diritto di questi ad “una” famiglia, proprio alla realizzazione del quale l’istituto della adozione è funzionale.

È in questo senso che il brocardo adoptio naturam imitatur viene a rappresentare il fondamento positivo dell’istituto: la lesione del diritto del minore alla propria famiglia richiede un intervento che attribuisca al minore una famiglia quanto più possibile analoga alla “propria”.

4. Processo di ridefinizione giuridica della famiglia

La famiglia, tuttavia, in questo periodo risente di preoccupanti tensioni.

Questa societas che è l’habitat, il nido in cui il minore deve crescere ed essere educato e formato – negli ultimi quarant’anni – ha, tuttavia, subìto un processo di ridefinizione giuridica, che è ancora in atto e che sta erodendo le basi giuridiche e costitutive dell’istituto familiare.

È necessario chiedersi se una tale ridefinizione giuridica della famiglia – che sembra banalizzare l’istituto del matrimonio, con disposizioni che tutelano in modo assoluto il diritto di autodeterminazione degli adulti a porre fine in modo sempre più veloce al vincolo coniugale, così, minando gravemente la stabilità del vincolo matrimoniale e familiare – sia funzionale o meno all’interesse superiore del minore a crescere e a essere educato nell’ambito della propria famiglia (art. 1 L. 184/1983)

Il modello giuridico di famiglia, che l’ordinamento sembra propiziare, appare essere sempre più orientato a soddisfare, come detto, il diritto di autodeterminazione degli adulti piuttosto che l’interesse superiore del minore.

Il nuovo diritto di famiglia sembra favorire, infatti, una privatizzazione e una fluidità dei rapporti familiari, che preconizza l’avvento di una “famiglia on demand”, in cui si potrà scegliere di entrare e uscire a piacimento quante volte si vorrà da un tipo di famiglia che si eleggerà tra una varietà di modelli, in base ai propri desideri e ai propri gusti sessuali.

In tal modo, tuttavia, si tradisce il diritto fondamentale dei minori di crescere e di essere educati nell’ambito della propria famiglia che è il luogo di protezione e di maturazione della loro identità.

È proprio questa la criticità che vorrei maggiormente evidenziare circa l’attuazione della legge 184/1983; se si continuerà, infatti, a depotenziare la famiglia – con leggi che favoriscono un’irresponsabilità e un dis-impegno diffusi – saranno i minori a risentirne maggiormente, perché non potranno soddisfare il loro diritto di crescere nella loro famiglia.

Non è da trascurare, infine, l’identità liquida che ha assunto ultimamente la famiglia – che è, tra l’altro, divenuto un termine polisemantico – e che il diritto sembra usare, come già accennato, con il malcelato intento di superare i limiti posti dal reale. Sembra evidente l’intenzione di voler porre le basi per la costruzione di una società finta e artificiale, certamente antitetica al superiore interesse del minore.

Uno Stato di diritto, al contrario, non deve atteggiarsi alla stregua di un notaio che ratifica incondizionatamente i desideri e i comportamenti dei consociati, come allo stesso modo non dovrebbe neppure rivestire i panni di un ingegnere sociale che progetta una società contraria al buon senso, al reale e alla ragione.

Deve, al contrario, favorire delle buone prassi, prima tra tutte quelle che aiutino la costituzione e la stabilità delle vere famiglie, cioè quelle potenzialmente feconde e che pubblicamente con il matrimonio si assumono i doveri previsti dalla legge e che anche la Carta costituzionale privilegia.

Una famiglia debole rende debole anche la società.

Con l’intento, invece, di soddisfare i desideri dei consociati si sta attuando un processo di decostruzione e di ridefinizione dell’habitat in cui ogni essere umano cresce e forma la sua identità: la famiglia; tutto ciò con gravi conseguenze soprattutto per chi come i minori hanno bisogno di questo importante riferimento.

5. No all’adozione gay e alla stepchild adoption

Da anni è in atto un pressing culturale diretto a convincere l’opinione pubblica che le coppie dello stesso sesso, anche riguardo all’accoglienza dei minori, devono rappresentare un concetto di “famiglia” universalmente condiviso, tanto quanto quello, davvero universale, dell’unione di un uomo ed una donna da cui ogni essere umano viene al mondo.

E, in modo preoccupante, in questa direzione si sta muovendo la giurisprudenza di merito che è giunta ad affermare, ignorando completamente la convenzione di New York e le più moderne conoscenze scientifiche che: “non sono né il numero né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano: questo è ciò è che ha, infatti, affermato il Tribunale per i Minorenni di Roma nelle sue recenti sentenze, nelle quali riconoscendo la stepchild adoption ha preteso di costruire una legittimazione genitoriale a favore di tutti i possibili incroci tra partner dello stesso sesso.

L’adozione in casi particolari, ex art. 44 L. 184/1983, invero, è un istituto eccezionale nel nostro ordinamento, che garantisce quattro specifiche ipotesi che la Corte di Cassazione (Cass. 22292/2013) ha sempre definito «tassative e di stretta interpretazione». La giurisprudenza fino ad oggi, aveva, infatti, escluso le abnormi interpretazioni fornite dal Tribunale per i minorenni di Roma, che qualche organo giudicante ha, tra l’altro, definito: “eversive”.

Le quattro ipotesi tassative previste dall’art. 44 L. 184/1983, infatti, hanno tutte alla base situazioni di abbandono o comunque di grave carenza nel rapporto genitoriale da parte del minore.

Nonostante, la Corte EDU abbia sancito, in modo chiaro, la non esistenza di un diritto umano all’adozione, da ultimo con la recentissima sentenza Affaire CHAPIN ET CHARPENTIER c. FRANCE del 9 giugno 2016, alcune corti di giustizia italiane, con un’evidente forzatura sul piano giuridico, hanno avuto riguardo più a tutelare un presunto diritto dei partner omosessuali ad ottenere un riconoscimento giuridico, seppur indiretto, di una nuova forma di genitorialità – inventandosi “l’impossibilità giuridica” di affidamento preadottivo – che a realizzare il preminente interesse del minore.

Eppure nei lavori preparatori della legge n. 184 del 1983, l’impossibilità di affidamento preadottivo riguardava solamente una “impossibilità di fatto” conseguente alla dichiarazione di adottabilità nei confronti di un minore abbandonato, laddove si faceva riferimento ai casi di impossibilità a reperire coppie disponibili all’adozione legittimante a causa di gravi handicap del minore da adottare, oppure dell’età di quest’ultimo qualora si trovasse in piena adolescenza; il legislatore si riferiva, dunque, ai “bambini difficili” a quei 300 casi che si trovano in istituti e che nessuno vuole.

È sempre più diffusa, tuttavia, la pretesa di diventare genitore, prescindendo da una famiglia in cui accogliere i minori.

Non esiste, però, un diritto ad avere un figlio, come non esiste un diritto all’adozione e non possiamo, pertanto, restare indifferenti ai modi di concepimento dei minori, soprattutto quando essi avvengono in violazione delle nostre leggi fondate proprio sui loro diritti, come nel caso della fecondazione eterologa praticata al di fuori dei casi eccezionali previsti e dell’orribile pratica della maternità surrogata. Si tratta di soluzioni che inseguono, per gli adulti che vi ricorrono, il diritto al figlio, ma trascurano i diritti del figlio.

Il miglior interesse del minore viene individuato, nel diritto vivente, nel fatto che gli adottanti sono persone di sesso diverso legate da vincolo matrimoniale.

È da costatare la pretesa sempre più diffusa, però, che i desideri assurgano a diritti, costi quel costi, senza tener conto se il proprio diritto di autodeterminazione infici altri diritti, soprattutto quelli dei più piccoli e dei più indifesi.

Ritengo a tal proposito che un correttivo da apportare alla legge sia quello di prevedere una qualche sanzione e non certamente un premio per chi intenzionalmente aggiri la legge 184/1983 procurandosi, anche all’estero, un bambino con vergognose tecniche artificiali, che giungono fino all’abominio della pratica dell’utero in affitto; tali soggetti, si servono di un procedimento ormai ben rodato e organizzato, in frode allo spirito della legge 184/1983, per soddisfare il loro egoismo, con la conseguenza di negare al bambino che si sono procacciati il diritto di poter crescere con un papà e una mamma.

Che cosa rispondere, infatti, a quelle migliaia di genitori che, rispettosi della procedura e delle condizioni poste dalla legge 184/1983, aspettano anni senza sapere se mai potranno diventare genitori e che, invece, vedono le loro richieste superate da quelle di soggetti che in pochi mesi – aggirando le basi e lo spirito della legge 184/1983 – riescono a realizzare il proprio egoismo?

È vero che tali fattispecie si configurano come adozioni in casi particolari e non sono adozioni “piene”, ma ove un tale escamotage fosse ulteriormente legittimato dalla Cassazione e/o dal legislatore, porterebbe certamente molte coppie di coniugi dal desistere al ricorso all’adozione, preferendo la strada più facile e veloce di procurarsi un figlio fatto su misura.

Come, infatti, è stato autorevolmente affermato “chiunque potrà adottare un bambino non in stato di abbandono – etero od omosessuale che sia, se convivente con il genitore – quindi da criterio residuale si arriva a creare uno strumento che è oltretutto alternativo all’adozione piena.”

6. Perché No all’adozione del single

È noto che vari progetti di riforma della l. n. 431 del 1967 consentivano l’adozione piena ai conviventi more uxorio da almeno due anni (art. 12 del progetto comunista) ed anche alle persone singole aventi almeno 18 anni e non più di 50 anni (art. 25 del progetto socialista).

Tali proposte inopportune e non favorevoli ai minori – in quanto nelle convivenze more uxorio manca la garanzia d’un focolare stabile, potendo i conviventi separarsi ad nutum; e perché le persone singole non garantiscono al minore abbandonato una vera famiglia, dotata della necessaria compresenza educativa d’una figura paterna e materna – non furono accolte, poiché l’art. 6 della l. n. 184 del 1983 continuò a consentire l’adozione piena solo alle coppie coniugate.

In seguito, si provò ad eccepire l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della l. n. 184 del 1983 (Cfr. App. Roma, sez. min. ord., 25 settembre 1993), nella parte in cui esso non consentiva l’adozione legittimante anche ad una persona singola, sostenendosi che l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo (ratificata in Italia con l. 22 maggio 1974 n. 357 e che consente l’adozione anche a persone singole), quale norma pattizia (pacta sunt servanda) di carattere internazionale, e perciò di rango superiore alla legge ordinaria (dalla quale non può essere derogata), avrebbe vincolato o obbligato immediatamente gli Stati firmatari a permettere l’adozione ai singoli.

Ma sia la Corte costituzionale (C. Cost. n. 183/1994), che la Suprema Corte di Cassazione ( Cass. n. 7950/1995), hanno escluso la possibilità di adozione legittimante da parte del singolo (poiché destinatari immediati della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sono gli Stati o legislatori nazionali e non i cittadini, e poiché tale norma attribuisce agli Stati una semplice facoltà, ma non li obbliga a permettere ai singoli entrambe le opzioni legislative previste dall’art. 6).

Giova, infatti, ricordare che l’istituto dell’adozione mira a garantire al minore abbandonato l’educazione in un’idonea famiglia sostitutiva in caso d’incapacità educativa dei suoi genitori: l’adozione è, perciò, attuazione dei princìpi costituzionali che garantiscono il pieno sviluppo della personalità. L’educazione deve avvenire in famiglia, perché solo la famiglia è considerata capace di garantire una normale evoluzione psichica del minore, il pieno sviluppo della sua personalità. Per famiglia s’intende quella coniugale, fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.) e costituita da una coppia di genitori (art. 30 Cost.).

Dall’esame della ratio dell’adozione si evince chiaramente che solo il modello di famiglia delineato dall’art. 29 Cost., quale società naturale fondata sul matrimonio e sulla presenza di una figura materna e paterna, può garantire al minore una vera educazione, come del resto riconobbe la Corte d’Appello di Roma nell’ordinanza del 25 settembre 1993, nella quale, dopo aver rilevato l’ampliamento della nozione di famiglia, ammetteva espressamente che “non per questo è venuta meno la funzione costituzionalmente affermata della famiglia”. Le scienze umane (psicologia, pedagogia, psichiatria, ecc.) hanno, dal canto loro, chiaramente e ripetutamente sottolineato che, per una corretta evoluzione della personalità e per una normale socializzazione, il minore ha bisogno di validi modelli genitoriali di riferimento, della necessaria compresenza di una figura educatrice materna e paterna. E la concreta realtà ha abbondantemente confermato l’esattezza di tale assunto, e cioè che l’assenza di una sola di tali figure educative non favorisce il normale sviluppo della personalità, ma genera disturbi della personalità, confusioni e vuoti psicologici, causando profondi traumi psichici, spesso irreversibili o irrisolti anche dopo molti decenni.

Solo una vera famiglia, e cioè una famiglia completa, formata da una coppia di genitori, e non pure una famiglia incompleta, monca, monoparentale, può promuovere ed assicurare tale pieno sviluppo, perché per raggiungere una vera maturazione psichica il minore ha bisogno di avere validi modelli educativi, di identificarsi in una figura materna e paterna, dovendo anche la famiglia adottiva trovare una corrispondenza nei modelli biologici, formati, appunto, da una figura materna e paterna, cioè da una coppia di genitori. Non a caso l’art. 30 Cost. usa il plurale dicendo che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”: tale dizione prefigura ed implica necessariamente una coppia educatrice, formata da una madre e da un padre (genitori), onde una famiglia monoparentale si porrebbe contro la lettera e lo spirito degli artt. 29 e 30 Cost..

7. Perché No all’adozione dei conviventi more uxorio

L’art. 6 della L 184/1983 recita: “L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto.” la ratio della norma è quello di assicurare al minore una famiglia collaudata, un “focolare stabile ed armonioso”, dove i legami siano ben saldi.

E proprio collegato al problema della stabilità della coppia coniugale è quello se l’adozione piena sia consentita alla c.d. famiglia di fatto. La famiglia di fatto (conviventi more uxorio) invero non dà la garanzia d’un legame stabile, potendo i conviventi separarsi ad nutum.

Per giunta se i conviventi more uxorio non hanno l’esigenza e il coraggio di assumere pubblicamente l’impegno di una vita in comune, che per loro rimarrà tale finché ci sarà dell’affetto, sembra contraddittorio e insensato che possano assumere pubblicamente un impegno di donare una unione stabile a un minore che ha già sofferto un abbandono.

È facile obiettare a questa considerazione che anche le famiglie fondate sul matrimonio sono instabili – soprattutto dopo l’inserimento nel nostro ordinamento del divorzio breve – tuttavia è da rilevare che i “presupposti di ingaggio” sono differenti; chi decide di sposarsi ha un progetto e assume un impegno pubblico, soprattutto dice al mondo, sposandosi, che vuol fare famiglia; i conviventi more uxorio, invece, rifuggendo dall’assumere pubblicamente gli obblighi propri del matrimonio, saranno liberi di gestire la loro unione senza alcuna regola.

Nulla vieterà, nei fatti, che durante una convivenza more uxorio – e ciò nello spirito proprio della convivenza, che è di completa libertà da schemi precostituiti – si possano mutare numero, genere, soggetti, con grave danno per il minore.

Pertanto, pur rientrando tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost., la convivenza more uxorio non può essere equiparata alla famiglia fondata sul matrimonio, in quanto ontologicamente caratterizzata, per sua natura, da una coesione precaria potendo sciogliersi per volontà di uno dei conviventi, e non suscettibile di creare diritti e doveri in capo ai conviventi assimilabili a quelli propri dei coniugi se non nei limitati casi in cui il legislatore abbia compiuto tale equiparazione (da ultimo nell’art. 342 c.c.),

Gli stessi conviventi pur potendo accedere al vincolo coniugale hanno scelto la convivenza, optando volontariamente per l’assenza delle conseguenze legali che discendono dal coniugio. Emerge, pertanto, l’ontologica diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio (Corte cost., sentenza n. 8 del 1996).

Pertanto, per tali motivi, esprimo il mio parere contrario a inserire nella platea degli adottanti i conviventi, i single e le persone omosessuali singole o uniti civilmente.

8. Il diritto alla continuità affettiva dei bambini in affido familiare

Il nuovo comma 5 bis dell’art. 4 l. adoz., introdotto dall’art. 1 l. n. 173/2015, stabilisce che, nel rispetto dei requisiti previsti dall’art. 6 l. adoz., il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, «tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria».

Non si discutono i buoni propositi del legislatore, idonei a venire incontro al “superiore interesse del minore”, ma non possiamo, tuttavia, non scorgere un pericoloso vulnus che è stato inferto, con l’approvazione di questa legge, all’istituto dell’adozione con conseguenze pericolose per la sua struttura e per il “superiore interesse del minore”.

L’art. 2 1° comma della L. 184/1983 stabilisce, che “Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.”

Ora, se fino a qualche tempo fa, sul concetto di famiglia la giurisprudenza delle Corti di giustizia era concorde nel ritenerla conforme al dettato dell’art. 29 della Cost. che la considera società naturale fondata sul matrimonio, oggi, invece, per le Corti non è più così.

La Corte EDU di Strasburgo, infatti, per citare un esempio – nel caso Schalk e Kopf c. Austria – ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU.

Anche il Parlamento europeo in diverse risoluzioni, ha raccomandato agli Stati membri di non interporre ostacoli al matrimonio di coppie omosessuali, garantendone la genitorialità, attraverso la possibilità di adottare e ricevere in affidamento minori, e attribuendo loro gli stessi diritti spettanti alle tradizionali famiglie eterosessuali fondate sul matrimonio.

Tali orientamenti hanno trovato accoglienza, seppur parzialmente, anche dalle Corti di giustizia italiane; la Corte Costituzionale, ad esempio, pur ribadendo l’unicità del modello costituito dalla famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio, ha sancito con la sentenza 138/2010 il diritto dei “componenti della coppia omosessuale, quali titolari del diritto alla “vita familiare”, di adire i giudici comuni per far valere, in presenza di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”

Da ultimo, poi, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sull’affidamento esclusivo del figlio minore alla madre convivente con un’altra donna (Cass. n. 601/2013) ha statuito la legittimità del suddetto affidamento, precisando che crescere in una famiglia omosessuale non può avere ripercussioni negative sullo sviluppo del minore se questo non viene provato con dati scientifici.

Il concetto di famiglia, dunque, per le Corti di giustizia non è più univoco come una volta e la struttura giuridica dell’istituto familiare ne risente, anche riguardo ai figli.

Una certa giurisprudenza creativa, intenta a mutare le basi sociali e giuridiche del matrimonio e della famiglia, è consapevole che l’istituto dell’adozione è la testa di ponte per procedere più facilmente alla ridefinizione della famiglia naturale.

In tal senso varie sono le pronunce delle Corti di giustizia che fanno pressing a favore di una riscrittura dell’istituto dell’adozione che comprenda come soggetti adottanti anche le coppie dello stesso sesso.

La Grande Camera della Corte europea diritti dell’uomo di Strasburgo con una pronuncia del 19 febbraio 2013, caso X e altri c. Austria ha affermato che:

“la relazione esistente tra una coppia omosessuale che convive di fatto in maniera stabile rientra nella nozione di vita famigliare così come quella di una coppia eterosessuale che si trova nella stessa situazione” e, dunque quando un minore vive insieme a loro, la vita familiare comprende anche quest’ultimo.

La Corte Costituzionale austriaca, il 28 gennaio 2015, ha esteso, con sentenza dell’11 dicembre 2014, il diritto di adozione anche alle coppie omosessuali.

Il Tribunale per i minorenni di Bologna, non è da meno; con il decreto del 31 ottobre 2013 è stato antesignano nel mutuare le tendenze giurisprudenziali che si agitano contro la famiglia intesa come società naturale, confermando l’affidamento ad una coppia omosessuale di un minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo. Tale decreto ha costituito una delle prime concrete applicazioni della nuova nozione di “famiglia” elaborata dalla giurisprudenza di legittimità sulla base delle pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il presupposto di tale provvedimento di affidamento e del decreto con cui è stato reso esecutivo è costituito dalla qualificazione della coppia omosessuale come una “famiglia”.

Da questo decreto l’affido familiare è, infatti, interpretato con riferimento non solo alla famiglia fondata sul matrimonio ma anche a quella fondata sulla convivenza, eventualmente omosessuale.

Tale provvedimento, molto discutibile e per nulla condivisibile, dimostra come la strada si stia ormai aprendo a un’estensione dell’adozione anche alle coppie omosessuali, partendo molto spesso dall’affidamento.

Nella linea di voler dare diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento all’adozione da parte di persone omosessuali è da considerare anche la decisione sempre del Tribunale di Bologna, dell’11 novembre 2014, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli articoli 35 e 36 della legge 184/1983 (sulle adozioni internazionali) nella parte in cui “non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto (due donne, sposate in America e residenti in Italia, che hanno chiesto al Tribunale di riconoscere la sentenza americana con la quale era stata disposta l’adozione di una minore, figlia biologica di una della due) se risponda all’interesse del minore adottato il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso abbia prodotto effetti in Italia”; poi dichiarata inammissibile con sentenza della Corte Costituzionale del 7 aprile 2016, n. 76, perché fondata su un ragionamento non pertinente alla fattispecie.

Ancora più sintomatiche di queste tendenze pro adozione omosessuale, sono le varie sentenze del Tribunale per i Minorenni di Roma emesse negli ultimi due anni, di cui una ha ricevuto conferma anche dalla Corte d’Appello di Roma e che hanno riconosciuto la stepchild adoption, cioè l’adozione del figlio del proprio partner dello stesso sesso.

Con questi presupposti è facile immaginare che il nuovo comma 5 bis dell’art. 4 l. adoz., introdotto dall’art. 1 l. n. 173/2015 possa diventare il “cavallo di Troia”, per aprire più facilmente il nostro ordinamento, dapprima all’affidamento di minori a persone omosessuali singole e/o in coppia e in seguito – per mezzo d’interpretazioni creative delle Corti di giustizia, che utilizzeranno, da principio sempre con più frequenza l’escamotage dell’adozione in casi particolari (art. 44, L. 184/1983) -giungere al definitivo superamento del limite posto dall’art. 6 della L. 184/1983, che consente attualmente l’adozione solo a coppie regolarmente coniugate.

Per tali motivi ritengo preoccupante la riforma dell’affido familiare, così come è stato attuato dalla L. 173/2015, perché tale legge, unita all’avvenuta approvazione delle unioni civili, è il battistrada per l’introduzione nel nostro ordinamento dell’adozione da parte delle persone omosessuali, mettendo seriamente in gioco l’interesse superiore del minore.

9. La cd. adozione mite

La adozione, in tutte le sue forme, si fonda, a monte, sulla necessità di venire incontro ai bisogni di un minore abbandonato mancando il quale presupposto non può — e non deve — farsi ricorso a detto istituto, pena contraddire e violare il principio fondamentale di cui all’art. 1 l. 184/1983.

Un uso distorto più che alternativo dell’art. 44, comma 1 lett. d) l. 184/1983 ha consentito ad una certa giurisprudenza, la creazione della figura della c.d. adozione mite, atta — a suo dire — a venire incontro alla situazione dei c.d. minori nel limbo, vale a dire quei minori che, a causa di un c.d. semiabbandono permanente, si trovano affidati sine die ad una famiglia.

Con tale forma di adozione – come afferma un’attenta giurista – si consente alla famiglia affidataria, che pure non avrebbe i requisiti per adottare e che, comunque, non ha seguito le relative procedure, di procedere all’adozione del minore che “ospita” in affidamento familiare.

In ossequio al principio della “continuità degli affetti”, di cui non si sa quale sia la fonte, ci si accontenta dei consensi ex artt. 45 e 46, creando una sorta di “adozione consensuale”.

Si consente, infatti, in tal modo, di eseguire una scelta del minore, contraria allo spirito ed alle regole dell’adozione tanto interna che internazionale.

Se l’art. 314/20 cod. civ., invero, ammetteva che si potesse indicare il minore da adottare, la l. 184/1983, in linea con lo spirito di solidarietà che rappresenta il fondamento dell’istituto, esclude tale possibilità. Il legislatore italiano si è, in tal modo, adeguato al disposto dell’art. 29 della Convenzione Aja 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, ai sensi del quale nessun contatto può aver luogo fra i futuri genitori adottivi ed i genitori del minore o qualsiasi altra persona che ne abbia la custodia, fino a quando non sono soddisfatte le condizioni previste dell’art. 4, lettere da a) a c), e dell’art. 5, lettera a), salvo se l’adozione abbia luogo fra i membri della stessa famiglia, o se siano osservate le condizioni fissate dall’autorità competente dello Stato d’origine.

Il semiabbandono permanente, in realtà, è un’ipotesi di non abbandono, per far fronte alla quale il ricorso alla adozione, ancorché mite, tradisce lo spirito che ha animato la nostra legislazione in materia e che pervade gli artt. 2 e 3, comma 2 Cost.

Troppo spesso ci si dimentica che è la Repubblica a dover intervenire per rimuovere le condizioni di difficoltà che impediscono l’attuazione del pieno sviluppo della persona, sostenendo il “disagiato” e non già privandolo dei suoi diritti inviolabili, quali, primo tra tutti, quello alla propria famiglia.

Si ha l’impressione che ci si preoccupi, anche da parte del legislatore, più dell’approvazione da parte del “sentimento popolare” che non delle ragioni di chi in Parlamento non ha voce diretta.

Si rinvengono, pur nel corso della presente Legislatura, numerosi progetti e disegni di legge che si propongono tutti di facilitare l’adozione dei minori da parte delle famiglie (o chi per loro) affidatarie, per la necessità, si dice, del mantenimento del rapporto affettivo instaurato, senza preoccuparsi di verificare l’“animus” con il quale l’affidatario è addivenuto alla scelta di procedere ad un affidamento familiare, anziché seguire le ordinarie procedure del procedimento adottivo, ove percorribili. Il sospetto di una possibile, ma legalizzata, frode alla legge, volenti o nolenti, sorge.

Pertanto, ritengo che non sia da favorire questo modello di adozione che tradisce anch’esso eminentemente il superiore interesse del minore.

9. Criticità di alcuni aspetti attuativi della legislazione e proposte pratiche

Gli aspetti che maggiormente interessano e preoccupano i genitori adottivi e che sono insistentemente proposti dalle associazioni di mutuo aiuto di genitori operanti nel territorio, sono soprattutto due:

  • – la richiesta di un potenziamento in ambito pubblico del supporto alle famiglie nel post adozione e nel pre adozione.

  • – un maggiore e più strutturato controllo, sull’eticità, trasparenza e completezza delle comunicazioni degli enti privati e pubblici, durante la procedura adottiva, sia nazionale che internazionale.

Il genitore adottivo chiede di non essere lasciato solo nell’affrontare questa meravigliosa avventura che è sì straordinaria ma anche difficile. Chiede di non essere lasciato solo sia quando si trova ad affrontare la strada che lo porterà a diventare famiglia tramite adozione, sia quando i figli sono a casa con lui e questi figli hanno bisogni grandi.

I genitori adottivi chiedono di essere informati di tutto quanto accade durante la procedura. Di essere informati di un procedimento del quale si è protagonisti, e nel caso della adozione internazionale, protagonisti anche dal punto di vista economico: è un diritto che i genitori chiedono a grande forza.

Occorre formare strutture e operatori, che non sono presenti in modo sufficiente nei territori.

Per questo è assolutamente necessario, ed è la terza priorità espressa dai genitori:

  • il potenziamento in numero e specializzazione di tutti gli operatori pubblici dedicati alla procedura di adozione e al bambino adottivo.

  • le attuali equipe presenti nel territorio, che si occupano di seguire in una prima fase la coppia che vuole adottare, in una seconda fase la famiglia adottiva, sono assolutamente insufficienti. Sia per numero sia per competenze. Si chiede quindi in primo luogo investimenti in questo settore, che riguarda l’assistenza alla famiglia ovvero il potenziamento del welfare.

Sulla proposta di adozione cosiddetta aperta, che permetterebbe di mantenere rapporti con la famiglia di origine qualora possibili, si è contrari perché è stata riscontrata da alcuni genitori adottivi l’estrema difficoltà per i bambini a gestire questo doppio rapporto di appartenenza e attaccamento con la famiglia che li ha accolti e con la famiglia di origine e che è motivo di stress per il minore.

10. Conclusioni

In conclusione se si prende atto che il modello giuridico di famiglia, che l’ordinamento sembra propiziare, appare essere sempre più orientato a soddisfare, come detto, il diritto di autodeterminazione degli adulti piuttosto che l’interesse superiore del minore, in tal modo si tradisce il diritto fondamentale dei minori di crescere e di essere educati nell’ambito della propria famiglia che è il luogo di protezione e di maturazione della loro identità.

È proprio questa la criticità che vorremmo maggiormente evidenziare circa l’attuazione della legge 184/1983; se si continuerà, infatti, a depotenziare la famiglia – con leggi che favoriscono un’irresponsabilità e un dis-impegno diffusi – saranno i minori a risentirne maggiormente, perché non potranno soddisfare il loro diritto di crescere nella loro famiglia.

Per questi motivi siamo contrari a incrementare la platea delle categorie di adottanti (single, conviventi more uxorio, partner di unioni civili omosessuali, unioni civili omosessuali).

Riteniamo che l’impianto e lo spirito della legge 184/1983 siano sufficientemente accettabili e pertanto – eccettuati alcuni aggiustamenti di tipo burocratico – la legge 184/1983 non debba subire una riforma radicale.

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